Il taccuino di Zaher
Nota introduttiva di Francesca Grisot
Dopo che furono partiti, un
angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi il
bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché
Erode sta per cercare il bambino per farlo morire».
[Mt 2,13-18 ]
Zaher Rezai, figlio di Mahmud,
era un Hazara di Mazar-i Sharif, città che nel 1998 fu teatro di una delle
tante stragi di civili hazara che l’Afghanistan ricorda. Zaher aveva allora
pochi anni ed era uno dei fortunati sopravvissuti. Qualche anno dopo, ancora
bambino, Zaher era in Iran. Lavorava come saldatore, appuntando diligentemente
schizzi e misure sul suo taccuino.
Il profilo che emerge dalla
lettura e traduzione del taccuino di un “clandestino” è il seguente: un ragazzo
in fuga dalla persecuzione, costretto a lavorare in giovane età come saldatore,
che a malincuore si getta in un viaggio di speranza che sa bene essere pieno di
insidie.
La storia di Zaher può essere
eletta ad icona del migrante afghano, molto spesso minorenne, se non
all’arrivo, di sicuro alla partenza. Comunque potenziale richiedente asilo. Il
caso dei migranti afghani, giovanissimi per lo più, è la storia di una diaspora
silenziosa. Dato il numero esiguo non ha eco sui giornali, ma rivela un disagio
sociale legato non solo alla guerra o all’occupazione del Paese, bensì ad un
feroce conflitto etnico e religioso di cui non si ha notizia in Occidente. Si
aggiunga a questo la prolungata condizione di diaspora ed esilio, giunta ormai
alla terza generazione, che ha costretto per decenni intere famiglie a migrare
senza sosta tra Paesi limitrofi poco ospitali (Pakistan e Iran) e zone interne
dell’Afghanistan. Questa terza generazione, ormai stanca e sfiduciata, volge lo
sguardo all’Europa.
A questa diaspora silenziosa
Zaher dà finalmente una voce; una voce dolcissima. Tra i versi delle sue poesie
egli cerca il coraggio per andare avanti, al di là del mare, dove crede sia
garantito il suo diritto all’esistenza.
Il taccuino trovato in tasca al
ragazzo conteneva in poche pagine il riassunto di una vita: alcuni talentosi
schizzi corredati da misure dettagliate per il lavoro di saldatore che svolgeva
in Iran; una nota sui risparmi racimolati e alcune poesie, appuntate o imparate
forse lungo il tragitto.
La calligrafia del ragazzo rivela
un grado di istruzione molto basso e ci conferma che, come tanti altri suoi
connazionali, Zaher non ha avuto la possibilità di frequentare la scuola.
Eppure, difficile a credersi per noi Italiani, conosceva a memoria e recitava
tra sé un certo numero di versi in rima. Poesie classiche, molto spesso poesie
antiche di alcuni secoli, che parlano di amore e nostalgia; in cui l’amato è
Dio e l’amore mistico il desiderio di ricongiungersi a lui nello splendore e
purezza della pre-eternità.
“Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano,
sei come un fiore di primavera
…
È dolce il tuo affetto
amo parlare con te
…
Tu sei un amico incantevole
sei una seta di passione e bellezza”
Mi piace sottolineare questo perché
l’amore per la poesia di questi giovani migranti afghani è il primo indice
della sensibilità, della dignità e del rispetto con cui sono educati fin da
piccoli. Nell’intervistarli emerge fin troppo spesso la sofferenza della
discriminazione, la determinazione con cui essi lottano per vedere riconosciuto
il loro diritto di esistere semplicemente in quanto “persone umane”. Il sogno
europeo è l’ “Europa dei diritti umani”. Sogno a cui non intendono rinunciare.
Inutile respingerli; ci proveranno di nuovo, fino a morire se serve.
“Tanto ho navigato, notte e giorno,
sulla barca del tuo amore
che o riuscirò in fine ad amarti o
morirò annegato.”
Andare
avanti! A tutti i costi. “In Iran non si può stare, in Afghanistan non possiamo
tornare” –ripetono in modo ossessivo i minorenni intervistati-.
La poesia continua. Racconta la
paura del respingimento; di essere trattato come un migrante qualsiasi o peggio
come un ladro o un clandestino.
“Giardiniere, apri la porta del
giardino; io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi son fatto rosa, che bisogno
ho di un altro fiore qualsiasi”
.
La
paura del viaggio. Il tratto di mare che ancora lo separa dal diritto d’asilo.
“Questo corpo così assetato e stanco
forse non arriverà fino all’acqua del
mare.
Non so ancora quale sogno mi riserverà
il destino,
ma promettimi, Dio,
che non lascerai finisca la primavera.”
Deve ancora cominciare l’inverno.
Nel limbo di Patrasso Zaher si imbarca su una nave diretta verso l’Italia. Ecco
il mare, l’ultima traversata.
“Oh mio Dio, che dolore riserva l’attimo
dell’attesa
ma promettimi, Dio, che non lascerai
finisca la primavera”
Per la mie esperienza di
mediatrice è cosa comune che i ragazzi afghani, anche analfabeti, conservino
versi di poesia a memoria e li ripetano spesso per darsi coraggio durante il
viaggio e l’esperienza della diaspora. Quello che sento ripetere più spesso
parla del dolore della morte in esilio. Vorrei dedicarlo in chiusura a Zaher,
ricordando che purtroppo questo è il pensiero fisso che si legge negli occhi
dei migranti afghani con cui vivo e lavoro ogni giorno.
“Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendesi
il mio corpo
Chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio
sudario?
In un luogo alto sia deposta la mia bara
Così che il vento restituisca alla mia Patria il mio
profumo”
“Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,
ma promettimi, Dio,
che non
lascerai si spenga questa mia primavera.”
Traduzione delle
poesie
A cura di Hamed Mohamad Karim
e Francesca Grisot.
Si ringrazia Domenico Ingenito
per l’aiuto nella resa italiana.
Foglio 9
Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano,
sei come un fiore di primavera
Mi faccio per te
inebriato e felice
quando vieni a cercarmi
È dolce il tuo affetto
amo parlare con te
Foglio 8
e anche quando mi togli la parola
il tuo pentirti è bello
Tu sei un amico incantevole
sei una seta di passione e bellezza
Ora vediamo fino a quando
t’accorderai col cuore mio
Foglio 11
Questo corpo così assetato e
stanco
forse non arriverà fino
all’acqua del mare.
Non so ancora quale sogno mi
riserverà il destino,
ma promettimi, Dio,
che non lascerai finisca la
primavera.
Oh mio caro, che dolore
riserva l’attimo dell’attesa
ma promettimi, Dio, che non
lascerai finisca la primavera.
Foglio 13
Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore
che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato.
Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un
ladro di fiori,
io stesso mi son fatto rosa, non vado in cerca di un fiore
qualsiasi”